“Anche la morte è una festa” è un titolo che potrebbe far pensare a un film horror. Ovviamente, non è mia intenzione. Questo titolo è comprensibile solo se si sta di fronte alla persona di Gesù e all’ultimo atto della sua vita terrena con un atteggiamento di fede… e la cosa oggi risulta problematica per molte persone.
Siamo cristiani ?
« Sono credente ma non praticante! », si sente dire spesso. Affermazione piuttosto insensata: non si capisce bene se la fede sia cosa di cui doversi giustificare, o se sia necessario “guardarsi” dal praticare la fede. È come se, di fronte alla domanda “voi vi amate?”, due persone rispondessero: “Sì, ci amiamo… ma non pratichiamo”!?!
Le parole di questa frase, tuttavia, dicono qualcosa di vero: si riferiscono alla credenza, appunto, ma non ancora alla fede. Per molte persone – anche per molti cristiani e, forse, anche per noi – il riferimento a Dio si riduce a un vago sentimento religioso, per cui è probabile che chi pronuncia questa frase ritenga che la sua “credenza” possa essere compatibile anche con una vita senza Dio. Non è bello da dire ma, paradossalmente, viviamo in un mondo che non crede in Dio, anche quando dice di crederci !
La storia umana ci dice che il rapporto dell’uomo con Dio è sempre stato problematico. Da sempre l’uomo produce simboli di immortalità, “idoli di sostituzione” (= la discendenza, essere ricordato nella storia/arte/letteratura/scienza/sport…), dai quali si aspetta ciò che solo Dio può assicurare: l’eternità. Il terrore della morte ci condiziona e origina in noi una profonda ansia che sta alla base di tutto ciò che facciamo e pensiamo. Anzi, tutta la civiltà umana, con tutto il male prodotto dall’uomo nella storia, è sostanzialmente il risultato di progetti d’immortalità (cfr. E. Becker).
Come già in altri tempi, anche la cultura attuale ha emarginato Dio, è un dato di fatto. Lo ha relegato tra le realtà superflue o ininfluenti, se non proprio inutili. E questo non è necessariamente un fatto negativo. Se teniamo conto dell’immagine di Dio trasmessa nel corso dei secoli – sempre più ingombrante per la cornice moralistica nella quale è stato co-stretto, ridotto alla figura irritante di un “padreterno guardone”, controllore e giudice inap-pellabile – possiamo affermare che questa “morte di Dio” (cfr. Nietzsche) così antropomor-fica e non evangelica, è provvidenziale, un’occasione di sana ripartenza per il Dio di Gesù.
Oggi è necessario porre la questione di Dio ripartendo da zero, e interrogarci non tanto sull’esistenza di Dio, ma capire chi è Dio e, soprattutto, chi siamo noi davanti a Lui. Per certi versi, questo obiettivo è intrinseco allo stesso cammino sinodale voluto da papa Francesco.
Ma Søren Kierkegaard, filosofo e teologo danese, ci rifila una stangata quando scrive nel suo Diario: « Il cristianesimo del Nuovo Testamento non esiste affatto ». Giudizio durissimo ma vero, se accostato alle parole di Gesù: « Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra? » (Lc 18, 8). Teniamo conto che Gesù parla di trovare ancora la fede, non la Chiesa, perché la Chiesa potrebbe anche essere presente, ma non necessariamente la fede!
Ammettere che, individualmente e comunitariamente, noi siamo una debole incarna-zione del Vangelo, è un segno di realismo, prima ancora che un gesto di umiltà. Già nel secondo secolo Tertulliano diceva che «cristiani non si nasce, ma si diventa » (Apologeticus, XVIII, § 4), e Gregorio di Nissa confermava lo stesso concetto dicendo che la vita cristiana è un ricominciare sempre, attraverso continui inizi, per tutta la vita, senza fine.
Questo è un dato fondamentale per comprendere la creatura “uomo”: la vita è un cammino – papa Francesco dice che è un processo – e noi diventiamo ciò che siamo nel tempo, acquisiamo la nostra identità di figli di Dio giorno dopo giorno. Ciò vuol dire che anche la relazione dell’uomo con l’“altro da sé” (Dio, il Signore Gesù e il prossimo) non procede in modo automatico, solo per un atto voluto da Dio: la risposta dell’uomo è essen-ziale. Anni fa, i vescovi italiani scrivevano che il cristiano è come « un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere » (CEI, Lettera ai cercatori di Dio, 2009, cap. I, § 5). La vita cristiana non si vive inserendo il pilota automatico. Essa fa quotidianamente i conti con la fatica e la gioia della fede che, in se stessa, è una scelta consapevole di costante conversione dalla tentazione di vivere in modo statico, di vivere adagiati sulle nostre abitudini (anche buone).
L’apostolo Giovanni scrive nella sua prima lettera: « Dio ci ha dato la vita eterna, e que-sta vita è nel Figlio suo. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita » (1Gv 5, 11-12). Ecco. Sono figlio, cioè ricevo la vita da un Altro e, da questo dono incessantemente offerto, faccio della sua Vita – donata a me – una Vita donata: questa libertà di stare in costante atteggiamento di dono conduce al compimento della mia identità di figlio di Dio.
Riassunto: la vita cristiana è realtà dinamica e trasformante, un cammino da compiere tenendo fisso lo sguardo su Cristo, « colui che crea la fede e la rende perfetta » (Eb 12, 2).
Le parole di s. Paolo ai Galati: « Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà » (5, 13) qualifi-cano il cammino della nostra conversione. Spero di non offendere nessuno se mi permetto di dire che la libertà di Cristo non è ancora protagonista nel nostro progetto di vita personale. In generale, il nostro stile di vita ha riferimenti immediati che non sono il Vangelo, non siamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda di Cristo. Perciò risuonano sempre attualissime le parole di Gesù: « il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1,15). Gesù ci invita a cambiare radicalmente forma mentis e a credere al Vangelo: una trasformazione che, in chiave simbolica, parla già di morte e risurrezione.
Ma veniamo al nostro tema: che cosa c’entra questo con la risurrezione di Cristo e che cosa ha da dirci a proposito della nostra risurrezione ?!?
Mi sembra che la libertà a cui aspira l’uomo sia unica rispetto a ogni altra creatura e che sia uno degli ingredienti sostanziali della nostra vocazione alla Vita e, di conseguenza, anche una chiave di lettura della risurrezione.
Il primo giorno dopo il sabato… qualcuno si è mosso!
Che cos’è e com’è avvenuta la risurrezione di Gesù? I Vangeli non ce lo dicono. Ci tra-mandano solo racconti di donne e di discepoli che vanno alla tomba e incontrano il Risorto. Se nessuno si fosse mosso, se tutti fossero tornati alle proprie case, se nessuna donna si fosse recata alla tomba a piangere e completare l’unzione del corpo di Cristo… se non ci fosse stato l’amore che li ha riportati al sepolcro, insomma, che cosa sarebbe successo? Forse, tutto sarebbe stato dimenticato. Non lo sappiamo. Possiamo dire solo che la storia della salvezza procede per decisioni e per gesti di esseri umani che accolgono il dono di Dio. È la legge dell’incarnazione : l’azione di Dio nella storia umana non si esprime se non attraverso decisioni umane, tutto ciò che avviene nella storia è compiuto da una creatura.
Questo vale soprattutto per Gesù di Nazareth: la resurrezione passa attraverso la sua fedeltà di creatura. Gesù ha raggiunto una sintonia di vita tale con Dio Padre che, nella sua vita, nella preghiera dell’orto, nell’agonia, nella sua passione e morte quella Vita è esplosa come resurrezione. Gesù è risorto! Cioè, non è rimasto vivo e nascosto nei sotterranei della terra, come pensavano gli antichi. No, nel momento della morte la vita di Gesù ha raggiunto la sua forma definitiva, quella alla quale siamo chiamati anche tutti noi. L’altra dimensione, la forma nuova di vita, è raggiunta anche per noi passando per la fedeltà di Gesù. Che cosa di fatto sia, in che cosa consista questa nuova forma di vita, noi non possiamo dire nulla e, d’altro canto, non sembra che i Vangeli vogliano dircelo con precisione. Essi ci parlano solo di come Gesù, dopo il dramma della croce, si è fatto ripetutamente presente ai discepoli e ha sostanziato la loro vita, la loro comunione e missione dal momento della sua morte in poi.
Certamente, per farsi un’idea di che cosa sia la risurrezione, è necessario compren-dere in che cosa consista la condizione umana e che cosa è la morte per l’essere umano.
Con un’efficace metafora i Padri della Chiesa, paragonano la condizione umana a quella del feto nel seno materno. Il feto resta nel grembo della madre finché non è in grado di uscirne in condizioni che gli permettono di continuare a vivere in modo diverso da quello uterino. La nascita segna la fine di uno stadio vitale per passare a una forma di vita diversa. Perciò, tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine/il fine che lo attende : ciò che favorisce l’uscita dal grembo materno è bene per lui, e ciò che la impe-disce è male. Come il feto nell’utero materno sviluppa organi che non servono in quel momento ma solo dopo la nascita, così anche noi sviluppiamo ora gli “organi spirituali” che servono per la vita futura. Noi siamo in una situazione destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di morire bene è salutare, ciò che ci impedisce di morire bene è un male.
In poche parole, la morte è il nostro destino, e dobbiamo continuamente farci i conti. Non è un incidente di percorso, e non è una sventura da scongiurare ma la ragione ultima di ogni percorso vitale : noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Perciò la morte è criterio supremo della vita, e solo l’esperienza di un amore incondizionato, gratuito rende sopportabile la nostra condizione di creature mortali. Solo quando nell’amore si percepisce concretamente la forza della Vita, si è in grado di accogliere le sue promesse e di abbandonarsi senza resistenze ai suoi ritmi. Non è necessario attendere la fine del mondo per capire il senso di tutta l’esistenza: è nell’accoglienza della nostra condizione di morte che si svela il valore della vita.
Ma se oggi, grazie alla scienza, capiamo meglio se e quando il feto è o non è pronto a nascere, non è altrettanto semplice per noi sapere che cosa significhi morire bene o male. Cominciamo a capire la vita solo quando impariamo ad assumere gli atteggiamenti necessari per prepararci a vivere la morte. È importante, perciò, sapere che cosa la morte ci chiederà per essere vissuta bene.
Il Vangelo, insieme ad alcuni contributi delle scienze umane, ci aiutano a capire che la morte chiederà a tutti almeno cinque cose :
- Avere consolidato la propria identità al punto da saper abitare il proprio nome in modo personale, senza delegare la definizione della propria identità a riferimenti esteriori.
La chiamata alla libertà è un dato fondamentale della nostra identità di figli di Dio. Istintivamente noi siamo portati a pensare che la nostra identità sia qualcosa che trova le sue connotazioni specifiche nel passato, nei dati anagrafici della nostra carta d’identità e della storia familiare e personale già vissuta. Sono tutti dati fissi, statici e favoriscono una visione deterministica della vita e della nostra storia, causa di tante derive depressive o di irrespon-sabili dinamiche proiettive.
In realtà, la struttura vocazionale della nostra libertà – siamo chiamati alla libertà, a fare scelte di vita – ci dice che la nostra identità di figli di Dio sta nel futuro, non nel passato. Noi siamo in cammino verso il compimento della nostra identità, cioè il nome scritto nei cieli a cui Gesù ci invita a tendere e di cui rallegrarci “piuttosto” che per qualche piccolo o grande successo ascetico o pastorale (cfr. Lc 10, 20). E vuol dire anche che noi abbiamo il potere di favorire o di condizionare negativamente questo cammino evolutivo verso la piena identità di figli. Perciò la teologia paolina, in accordo con i Vangeli, propone Gesù Cristo come unico riferimento per la vita del cristiano. Ed è la stessa esortazione della lettera agli Ebrei, che ci invita a tenere fisso lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta (cfr. Eb 12, 2).
Abbiamo detto che l’identità della persona umana sta alla fine del suo cammino. Alla nascita, infatti, l’uomo si identifica con il tutto ed è un complesso di possibilità aperte ad innumerevoli sbocchi. Progressivamente, l’identificazione della persona si compie attraverso libere scelte, che rendono attuali alcune possibilità e ne annullano altre. L’identità personale si realizza, dunque, attraverso innumerevoli piccole morti quotidiane che consentono la nascita definitiva dell’uomo interiore. Per questo ogni scelta comporta l’esperienza di una perdita e quindi anticipa, in qualche modo e misura, l’angoscia della morte.
Ogni tappa dell’esistenza umana implica partenze e abbandoni sempre più impegnativi. Si inizia con la nascita, che costituisce l’uscita da una forma di vita e l’ingresso in un’altra. Crescendo l’uomo deve lasciare forme immature di esistenza per entrare in modalità diverse: lascia la casa per andare a scuola, lascia i genitori per incontrare altri, lascia il gioco per iniziare il lavoro, lascia la famiglia di origine per costruirne una nuova, ecc. Queste diverse partenze diventano possibili in virtù dell’amore da cui l’uomo è spinto a crescere e quindi grazie a quanto ha saputo interiorizzare i doni vitali che gli altri sono e gli hanno fatto.
- Avere imparato ad amare in modo autentico, così da interiorizzare gli altri senza possederli. La nostra condizione di creature è questa: finché l’identità personale non è
consolidata, ci definiamo per mezzo di realtà anagrafiche ed esteriori e ci identifichiamo con le cose possedute, le relazioni vissute, il lavoro. La crescita personale esige l’abbandono progressivo di questi riferimenti, per acquisire la forma ultima, fissata dalla interiorità. La morte ci chiederà appunto di aver raggiunto l’intimo, che non designa il “privato” e, ancora meno, il ripiegamento dell’io su se stesso, ma indica il luogo dell’incontro tra l’io e l’Altro – il che significa paradossalmente sia l’uscita da sé (ex-sistere) sia il rientrare in sé, la presenza a sé che l’altro rende possibile – una presenza a noi stessi che, attraverso incontri e prove successive, ci aiuti ad abitare in modo definitivo il nostro nome, cioè entrare nella forma definitiva di vita propria dell’uomo interiore che cresce affrontando nuove avventure vitali sempre più libere e impegnative.
La morte rappresenta l’ultima partenza nell’attuale forma di esistenza ed esige la capacità di solitudine totale. Come rivela la morte di Gesù, tale solitudine è possibile quando la vita è stata nutrita dall’amore : è, cioè, una solitudine abitata dalle progressive interiorizzazioni di persone che, amandoci, diventano parte di noi stessi. Esse rendono possibile la partenza in piena solitudine senza la necessità di condurre o essere condotti per mano nel futuro ignoto. Nella prospettiva di fede, l’esperienza dell’incontro con Dio rende ragione e fonda il senso di ogni amore incondizionato della storia, per continuare il cammino verso l’ignoto. Nella fede ci è chiesto di partire sempre, senza sapere che cosa ci attende, certi che dove arriveremo un Amore compie le sue promesse e noi scopriremo chi siamo in modo pieno e definitivo. In questo senso Paolo ci ricorda con la consueta energia: « se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù » (Col 3, 1) invitandoci a una consegna fiduciosa e permanente al Bene e all’Amore sommo – Dio.
- Avere acquisito un distacco dalle cose tale da saper partire senza portare nulla con sé.
Mentre le persone debbono essere interiorizzate per saper partire, le cose debbono essere consegnate perché servano ad altri. Ogni attacco alle cose diventa un ostacolo per morire. La morte ci chiederà di essere capaci di una gratuità senza limiti, che investa tutta la realtà, persino il nostro corpo che ci è servito. La vita perciò richiede che si impari a fare a meno di tutto, per concentrare tutta l’attenzione all’essenziale, che consiste nell’interiorità. La morte chiede di avere raggiunto un tale distacco dalle cose da essere capaci di lasciare tutto senza portare nulla con noi. Se non raggiunge questa capacità di distacco, l’uomo percepisce e subisce la morte come un furto, che gli sottrae le cose che egli ritiene sue. In realtà nulla appartiene all’uomo se non il suo nome, quello che fissa la sua identità definitiva: il nome scritto nei cieli.
- 4. Amare in modo oblativo, così da sapersi donare interamente senza rimpianti. Questo
esige un distacco da tutte le cose che si acquisisce solo con l’esercizio di amore gratuito e disinteressato. L’intera esistenza è la palestra per imparare ad amare in modo oblativo. La morte chiederà ad ogni uomo di avere imparato l’insufficienza delle cose e di amare al punto da consegnarsi interamente, non trattenendo nulla per sé, neppure il proprio corpo.
L’amore oblativo non è un’imposizione morale, o il risultato di uno slancio istintivo, ma è urgenza vitale che sollecita la libertà, per fare scelte che favoriscano la crescita personale e il cammino dell’umanità nella storia. L’amore è la risposta all’attrattiva esercitata sull’uomo dal Bene, dal Vero, dal Giusto e dal Bello, è la Forza vitale che spinge a stabilire rapporti e a sviluppare la capacità di consegnare vita secondo le esigenze della persona in crescita. Ma non ogni forma di amore è sufficiente a far crescere le persone: più la persona è vuota, più esige un amore oblativo, capace di offerta senza aspettative, esente da ricatti o condizioni.
Questa dimensione dell’amore si sviluppa quando diventiamo strumenti della Vita per gli altri, quando accogliamo la Vita con tale gratitudine da consentire che in noi diventi dono. Ogni egoismo, invece, deteriora il clima vitale, distrugge le energie necessarie alla crescita di tutti.
- Avere imparato a fidarsi della Vita, al punto da saperla perdere per ritrovarla.
La morte, tuttavia, porta anche il segno dell’ ambiguità dell’ amore umano. Ogni morte
ingiusta è segno di un amore che non è ancora giunto alla forma oblativa. Gli emarginati, gli oppressi, i poveri, i morti per violenza, sono l’espressione del peccato delle comunità umane: dell’egoismo, della pigrizia, dell’indifferenza.
Gesù diceva che chi vuole conservare la vita per sé la perde per sempre; solamente chi impara a offrirla è in grado di ritrovarla e per sempre (cfr. Mt 16, 21; Lc 17, 33; Gv 12, 25). Ma abbandonare la vita è possibile solo quando si è in grado di abbandonarsi alla Vita, di fidarsi a tal punto dell’Amore, da rimettere la propria esistenza nelle sue mani (cfr. Lc 23, 46).
La morte di Gesù e… la Pasqua!
E veniamo a Gesù, allora. Nella sua esperienza e nel suo insegnamento Gesù è stato il segno concreto del valore della morte come criterio di vita. La «sua ora» – come Gesù chiama la sua morte, nel vangelo di Giovanni – ha orientato tutti i suoi passi ed è diventata la ragione delle sue scelte. Per questo Gesù è stato l’espressione concreta delle esigenze della Vita nella fedeltà della morte. La croce, luogo della sua fedeltà, è diventata il simbolo di chi vive fino alla pienezza. Nella morte Gesù ha raggiunto la sua definitiva identità di Figlio ed è stato costituito Messia e Signore per noi. Sulla croce Egli « è stato esaltato e gli è stato dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome » (Fil 2,9) .
Nella croce Gesù ha mostrato la forza del suo insegnamento sulla povertà. Egli chie-deva di distaccarsi completamente dalle cose: « Chi non rinunzia ai suoi beni non può essere mio discepolo » (Lc 14, 33). Gesù infatti sapeva che: « non si può servire due padroni » (Mt 5,34; 19,21.26); perché « dove è il… tesoro, là sarà anche il… cuore » (Lc 12, 34); o si è servi di Dio e si diventa vivi o si è schiavi delle cose e si perde la vita. Quando ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere offerta solo da coloro che non l’hanno affidata agli idoli.
Nella croce Gesù mostra come la forza dell’amore di Dio diventa offerta di sé ai fratelli. Gesù nel suo insegnamento ha unito il comandamento dell’amore di Dio (che è accogliere la sua azione) al comandamento dell’amore per gli altri (che è donare la sua azione). Non sono due comandamenti diversi, ma due momenti dello stesso processo vitale. In questo senso il riferimento a Gesù è per noi efficacissimo, perché attraverso di lui abbiamo scoperto a che cosa conduce la fedeltà al progetto di Dio.
Gesù è stato costituito Messia e Signore, per la fedeltà con cui ha amato anche quando intorno l’odio e la violenza lo uccidevano. Egli ci ha rivelato la legge fondamentale dell’amore che salva: per rendersi salvatore Dio deve farsi carne. L’amore di Dio, infatti, non può emergere nella storia se non ci sono persone che lo rendono visibile. Dio può operare salvezza solo attraverso gesti storici di uomini che amano. La rivelazione di Dio non è e non si limita a un insieme di idee chiare e distinte, ma è una serie di eventi che interpellano l’uomo e lo sollecitano a decisioni di vita motivate dalla libertà di amare come ama Dio.
Per giungere a maturità, quindi, l’uomo deve cambiare stile di vita e operare continue conversioni. Gesù chiedeva ai suoi la rinuncia a se stessi e alle cose quando diceva: « Se qualcu-no vuol venire dietro a me rinneghi se stesso » (Lc 9,23); « Chi non odia perfino la propria vita non può essere mio discepolo » (Lc 14, 26); « Chi vuole conservare la propria vita la perderà » (Lc 9,23). Questo significa «portare la croce», che è la condizione per seguire Gesù: « Chi non por-ta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo » (Lc 14,17; Mt 10,38). Rinunciare a se stessi significa non seguire i propri istinti che riflettono il passato immaturo, e lasciarsi guidare dalle esigenze che la vita quotidiana presenta per crescere come figli di Dio, cioè liberi di amare come ama Lui. Queste indicazioni sono per tutti, perché riguardano gli atteggiamenti necessari per raggiungere la maturità o sviluppare la dimensione interiore di ogni persona, quella che Gesù chiamava: “vita eterna”.
Per comprendere Gesù e poterlo seguire, è importante capire che l’oggetto della fedeltà di Gesù nel suo mistero di passione e morte non è l’esecuzione di un comando divino, perché Dio non prende decisioni sugli uomini, ma offre possibilità. Non è volontà di Dio che Gesù muoia, perché Dio non vuole la morte degli uomini, tanto meno la morte cruenta del Figlio dell’uomo. Dio vuole la rivelazione dell’amore, ed è questo che chiedeva al Figlio: rivelare l’amore nelle situazioni più estreme di odio, volute solo dagli uomini. Gesù ci salva non perché ha sofferto tanto, ma perché ha amato « fino alla fine » (Gv 13, 1). Passa per questa fedeltà di Gesù l’esplosione di vita/risurrezione, nuova tappa della storia umana.
Gesù aveva predicato molte volte che di fronte all’odio è necessario raddoppiare la forza dell’amore, che quando si incontra il peccato è necessario esprimere misericordia, che alla violenza si risponde con la mitezza, e l’aveva vissuto. Ma negli ultimi giorni della sua vita vivere una fedeltà così alta sembrava al limite delle possibilità umane. Fu un’agonia, fino a sudare sangue di fronte a un compito immane: devo ancora amare di fronte a tanto odio e violenza? È possibile amare, compiere gesti di misericordia, di solidarietà, di perdono, anche in questo abisso di sofferenza?
Dubbio legittimo, lo stesso che viviamo quando scoppia la violenza nella nostra storia. Quante volte, in questi tempi, avvertiamo un senso d’impotenza? Cosa fare perché finisca la guerra, perché cessi la violenza tra gli uomini? È un dubbio che si scontra con la durezza dell’animo umano, e in noi può diventare chiusura, inerzia, ripiegamento su se stessi: «Non c’è nulla da fare! Non mi resta che curare i miei affari, i miei interessi».
Questa è la tentazione che anche Gesù ha subito. Ma Gesù è stato fedele: « Nelle tue mani io rimetto la mia vita. Non la mia, ma la Tua volontà si compia ». E la volontà di Dio era questa: continuare ad amare, rivelare la misericordia, esprimere forza di vita là dove si erano scelte dinamiche di morte e di violenza. Scegliendo di fare la volontà del Padre, Gesù non ha semplicemente compiuto un dovere: ha immesso nella storia degli uomini spinte nuove di vita che restano, ha mostrato dove può condurre la fedeltà. Spinte di vita che, nella nostra libertà, possiamo assecondare… dovremmo assecondare.
Ricordiamo che l’evoluzione si esprime così: quando la vita inventa nuove modalità di esistenza cerca di esprimerle in tutti i modi. L’evoluzione della vita comporta momenti decisivi, in cui una novità irrompe ed esplode in una fioritura straordinaria. Così è stato quel giorno: è esplosa una forza di vita, ha trovato una modalità nuova di tradursi e ha irrigato la terra con « fiumi d’acqua viva », come diceva Gesù, « una fonte che zampilla per la vita eterna » (Gv 4, 14). Non semplicemente nel dopo morte: zampilla ora, qui sulla terra, fino a esprimersi in dimensioni di eternità. Perciò anche la morte diventa motivo di festa: la festa di una vita giunta al suo compimento, che è la comunione piena con la Vita!
Questo è il contenuto della resurrezione. Risorgere non significa che il nostro corpo andrà altrove, ma che la nostra dimensione interiore cresce e si sviluppa in modo da attraversare la scomparsa per entrare in una modalità spirituale di esistenza. Non abbiamo le categorie per immaginare la forma definitiva di vita umana, tanto meno per descriverla, perché la Vita è infinitamente più grande della nostra modalità attuale di esistenza. Non possiamo sapere che cos’è, ma possiamo anticiparne le dinamiche, accogliendo senza riserve l’azione di Dio in noi ed esprimendola come Gesù ha fatto, poiché « colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a Lui » (2Cor 4, 14).
Il giorno dopo il Sabato di quell’anno è cominciata una nuova tappa della storia umana. Ed è iniziata con la bellezza di una normalità alla portata di tutti : l’attenzione delicata di alcune donne che vanno a un sepolcro, la gioia di discepoli che cominciano a capire qualcosa di più di quel giovane rabbi che hanno seguito, la fedeltà alla Vita e la libertà di giocarci anche noi in un Amore « fino alla fine »…
p. Renzo Brena sci
Questa riflessione riprende spunti e contributi convergenti dagli scritti di:
- Becker, Il rifiuto della morte, Milano, San Paolo 1982.
- Carlo Molari, La vita del credente, Elledici, Leumann (TO) 1996.
- Eugen Drewermann, Io discendo nella barca del sole. Meditazioni su morte e risurrezione, Rizzoli, Milano 1993.
- Dominique Collin op, Il cristianesimo non esiste ancora, Queriniana, Brescia 2020. e Il vangelo inaudito, Queriniana, Brescia 2021.
- Tomáš Halik, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare, Vita e Pensiero, Milano 2021.
- François Varillon sj, Gioia di credere, gioia di vivere, EDB, Bologna 1995.